Dalla tela muta all’infinito di Kusama: riflessi, riflessioni e sguardi di sfida

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Dalla tela muta all’infinito di Kusama: riflessi, riflessioni e sguardi di sfida

Vi racconto una storia. Un giorno, moltissimi anni fa, mi trovai davanti a una tela che sembrava muta. Non muta perché priva di significato, ma perché il suo messaggio sembrava nascondersi dietro un silenzio impenetrabile. Era una di quelle opere che ti sfidano: non ti supplicano, non ti chiedono nulla, ma ti obbligano a fermarti. A riflettere. A interrogarti.

La galleria che la ospitava sembrava saperlo: ogni suo angolo pareva studiato per condurti verso quel dipinto. Fu davanti a quell’opera di un artista semisconosciuto – una superficie grigia interrotta da pochi schizzi neri, come intenzioni lasciate a metà – che sperimentai il mio primo vero incontro con l’essenza dell’arte contemporanea. E non fu un incontro “comodo”.

Ricordo un giovane curatore che, con la baldanza dei vent’anni, si avvicinò e mi disse: “L’artista sta cercando di esprimere il vuoto esistenziale”. Non gli risposi, non perché non avessi nulla da dire, ma perché sapevo che non ci saremmo capiti. Il vuoto esistenziale? Lo conoscevo bene. Me l’avevano spiegato in mille modi e, in fondo, l’avevo anche vissuto. E in quella tela non riscontravo nulla di tutto ciò. La osservai per un altro minuto o due, tra lo scherno e la sufficienza, con un’espressione che doveva tradire i miei pensieri. La mia concezione di arte, radicata nei grandi maestri del passato, non trovava molti punti di contatto con quel pezzo di tessuto. Nessuna traccia del chiaroscuro drammatico del Caravaggio, né della commovente grazia di Raffaello, né tantomeno della solennità di Jacques-Luis David. Non c'era quella tensione alla perfezione che avevo sempre associato al genio artistico.

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Il vero aspetto della "tela muta" (o "tela grigia") rimane ancora un mistero, o forse solo un lontano ricordo

Eppure, lei continuava a fissarmi, come se volesse dialogare. Stava cercando di sfidare i miei pregiudizi? Voleva raccontarmi la sua storia, svelarmi i suoi misteri? O magari solo rimproverarmi per la mia impertinenza? Avvicinandomi, sentii il desiderio di toccare le sue rugosità, quasi a volerla attraversare, come se dietro quel sottile strato di vernice si celasse la risposta. Lo sguardo vigile del curatore mi suggerì di tenere a bada le dita, così la fissai per un’ultima volta e proseguii. Lasciai l’opera orfana del suo interlocutore e lei mi lasciò con più di un interrogativo. Qualsiasi cosa volesse dirmi, non lo saprò mai. Non tornai mai più a vederla, ma in qualche modo lei non avrebbe mai smesso di guardarmi.

Una nuova prospettiva

Da quel momento, il mio interesse per l’arte contemporanea crebbe. Iniziai a documentarmi, a visitare mostre, a scoprire un mondo proteiforme, fatto di tutto e del suo contrario.

Ma il mio incontro più emblematico avvenne a Londra, alla Tate Modern - un luogo che vibra di idee, prima ancora che di opere. Vagavo tra le sue enormi sale, quando giunsi davanti a un’installazione che non chiedeva spiegazioni, ma piuttosto un’immersione totale. Era una delle stanze degli Infinity Mirrors di Yayoi Kusama: un’installazione temporanea in cui entri e ti ritrovi circondato da un'infinità di luci e specchi. Il tuo riflesso viene moltiplicato, distorto e allargato fino a diventare una presenza indistinta in un caleidoscopio cromatico. Un'esperienza psichedelica che mi lasciò più domande che risposte. Cosa rendeva memorabili dei banali riflessi di luce? Qual era, se c’era, lo scopo? Mi sorse il dubbio che fossi stato attratto più da una sapiente strategia di marketing che da una vera opera d’arte. «La sensazione di trovarsi al centro di un labirinto fuori dal concetto di spazio-tempo è certamente intensa», pensai, «ma allora anche l’ottovolante o gli autoscontri dovrebbero avere un posto in un museo».

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Una delle Infinity Room di Y. Kusama (Stock)

Oltre le facili risposte, cercai di “attraversare” quegli specchi. Capii che Kusama stava spingendomi a riflettere sul nostro posto nell'universo, sulla solitudine del nostro essere, sulla singolarità che si perde in un’immensità di mondi paralleli. La vita è infinita, così come lo sono i suoi riflessi. E questo ci costringe a confrontarci con la nostra piccolezza, ma anche con le nostre innumerevoli potenzialità. In quel momento mi resi conto che, se l’obiettivo dell’artista era far riflettere, ci era riuscita perfettamente. I miei ancoraggi a un'idea anacronistica di concepire l'arte si stavano lentamente allentando.

L'arte del presente, gli artisti del momento

L’arte, dopotutto, è lo specchio della società che la genera. Ogni epoca ha avuto le proprie convenzioni estetiche e le proprie provocazioni. Il Novecento, con i suoi stravolgimenti, ha dato il via a movimenti che hanno sfidato la ricerca della perfezione, come l'Espressionismo, il Cubismo, il Surrealismo. Con la postmodernità, l’arte è diventata più un’idea che un oggetto. Sebbene alcuni artisti coltivino la memoria storica, magari reinterpretandola in chiave moderna (penso al neorealista Bo Bartlett o a Odd Nerdum, le cui opere si rifanno ai maestri del Seicento), l'impressione è che l'arte di oggi rispecchi una società che (soprav)vive nell'effimero, godendo dell’istante e per l’istante. Il nostro tempo frenetico richiede artisti che ci ricordino di riflettere su noi stessi, sulla nostra condizione. Perché dovremmo creare cose capaci di resistere al tempo se la nostra stessa esistenza è improntata al consumismo?

Immagini delle opere Homeland (1994) di Bo Barlett e The Last Procedure (1944) di Odd Nerum

Considerate le premesse, è lecito chiedersi: viviamo in un’epoca senza correnti artistiche degne di questo nome? Forse. Ma non senza artisti capaci di cogliere lo spirito del nostro tempo e meritevoli di creare un proprio filone personale. Nello sterminato panorama contemporaneo, lontano dai fenomeni di marketing (che lascio volentieri agli speculatori del settore), è comunque possibile imbattersi in visioni e realizzazioni degne di nota. Tra i tanti esempi, mi vengono in mente Cui Jie, artista cinese che fonde architettura e arte astratta, proponendo una prospettiva originale sull'urbanizzazione e la modernità. O Loris Cecchini, vincitore del Premio Arnaldo Pomodoro nel 2014, il cui lavoro spazia tra scultura, installazioni e fotografia. Gli appassionati del surrealismo potrebbero invece apprezzare le forme semplici e i colori del pittore svizzero Nicolas Party. Insomma, l’offerta è talmente ampia che meriterebbe una digressione ad hoc (e non escludo un futuro articolo a tema).

Particolari delle opere di Cui Jie (a sinistra) e L. Cecchini (destra)

Più giudizi, meno pregiudizi

L’arte contemporanea non avrà la durabilità delle sculture di pietra o dei grandi dipinti del passato, ma continua a parlare della condizione umana. E se non ha risposte immediate, apre interrogativi profondi, individuali, politici e sociali. Quanto di tutto questo rimarrà a sempiterna memoria? Solo il tempo ce lo dirà.

Per quanto mi riguarda, nessuno riuscirà mai a farmi preferire un palazzone brutalista a una cattedrale neoclassica, o un murale di Banksy a un Guido Reni. E se dovessi scegliere, una banana la mangerei, non la appiccicherei a un muro. Ma sono convinto che il compito di chi ama l’arte sia anche quello di cercare, di andare oltre il proprio gusto personale. La bellezza si può trovare in ogni epoca, tecnica e movimento. Pur non rinnegando il mio ideale estetico, la mia ricerca non si è mai fermata, e quella tela “parlante”, nonostante tutto, mi ha spinto a guardare oltre i miei bias, fino al punto di indurmi a “scendere in campo” e sporcarmi le mani. Forse quel quadro voleva solo dirmi: "Non temo il tuo giudizio, ma i tuoi pregiudizi. Sperimentati, e vediamo di cosa sei capace!"

Sono sicuro che anche voi, prima o poi, troverete la vostra tela grigia che vi farà mettere in discussione tutto, o anche solo un’“incrollabile” certezza. E se proverà a parlarvi, non commettete il mio errore: ascoltatela. Le sue parole potrebbero scuotervi nel profondo.

(Foto di copertina: una rappresentazione di fantasia della "tela muta")

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