Dal quotidiano all’eterno: la fotografia di Robert Doisneau

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Dal quotidiano all’eterno: la fotografia di Robert Doisneau

La genesi di un genio dell'immagine

Robert è un bambino come tanti, vissuto nella periferia di Parigi sullo sfondo della I° Guerra Mondiale, con un padre assente al fronte e orfano di madre a soli 8 anni. Ma come tutti i bambini non perde mai la passione per il gioco e la libertà. Ama pescare con lo zio, ma soprattutto quando è solo e salta la scuola. Il suo motto è “Disobbedire sempre!”. La strada è la sua ispirazione: “E’ lì che bisogna andare perché si imparano molte più cose che a scuola!”. Robert è solo un bambino in fuga e la sua disobbedienza non è altro che lo specchio del suo disagio, della sua solitudine e della sua profonda sensibilità. “Quello che cercavo di mostrare era un mondo dove mi sarei sentito bene, dove le persone sarebbero state gentili, dove avrei trovato la tenerezza che speravo di ricevere. Le mie foto erano una prova che questo mondo può esistere”.

La sua fotografia è la continuazione del suo sogno di Bambino. La visione di un mondo ideale, a tratti surreale, un trionfo di fantasia, grazia e ironia svincolato dalle regole tradizionali, che sa cogliere la felicità e i sorrisi nei gesti e nei volti dei suoi soggetti (non a caso i suoi scatti più iconici e memorabili rappresentano i bambini e gli innamorati). “Guardare, guardare, guardare finché lo sguardo non è completamente ubriaco”: Insieme a Henri Cartier-Bresson fu uno dei precursori del fotogiornalismo di strada – ciò che oggi chiamiamo ‘street photography’ – nonché antesignano della fotografia di moda e pubblicitaria.

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Alcuni scatti di Doisneau raffiguranti i bambini delle periferie parigine

Nel 1934 è assunto come fotografo all’ufficio marketing della Renault, ma viene ben presto licenziato per scarsa produttività, soprattutto perché sulla via del lavoro era solito attardarsi a osservare la gente per strada… Poco male: il destino gli aveva decisamente indicato la via già prudentemente intrapresa a 16 anni. Da fotografo amatoriale era talmente timido che le sue prime foto avevano una “visione rasoterra”. Timoroso di fotografare direttamente le persone, i suoi primi scatti si limitavano all’asfalto e alle automobili ferme nel traffico di Parigi. Tuttavia non demorde, inconsciamente consapevole che la sua arte avrebbe trovato un modo per leggere nell’anima della gente. Con l’età giunge anche il coraggio, anche se continua nascondere la sua macchina fotografica sotto il paltò (un po’ per non ostentare il suo ruolo, un po’ per ottenere l’effetto “spontaneità”): comincia a riprendere le persone da lontano o dall’alto, per poi avvicinarsi ai bambini con i quali riesce ad instaurare un rapporto “alla pari” entrando nel loro mondo e insieme a loro gioca con la sua Rolleiflex. Bambini immortalati in ogni momento della loro vita di tutti i giorni: sono i bambini della periferia, cresciuti troppo in fretta che si divertono con poco. Bambini alle prese con i loro giochi per strada, che si impegnano al massimo o che, distratti e impazienti, sperano che la lezione finisca presto e l’orologio vada più in fretta possibile, bambini che combattono una guerra immaginaria in una terra di nessuno, che vanno a comprare una baguette e contano il resto, bambini che fanno la pipì per strada, che sognano i giocattoli davanti a una vetrina. Foto commoventi che ci riportano con nostalgia alla nostra infanzia.

Pioniere della foto di strada

Come in ogni processo evolutivo e artistico i bambini cedono progressivamente il posto agli adulti. In un’epoca in cui la fotografia era un mezzo di comunicazione relativamente nuovo e usato quasi unicamente per scopi commerciali (moda, cinema e pubblicità) Doisneau applica le sue conoscenze di grafica e litografia componendo le sue immagini nel modo più leggibile all’occhio umano, dando voce alla gente comune: ne racconta le vite caricando ogni scatto di grande umanità, ma allo stesso tempo risponde ad un suo bisogno privato e personale. “Le fotografie che mi interessano, quelle che trovo più riuscite, sono quelle aperte, che non raccontano una storia fino alla fine, ma lasciano allo spettatore la possibilità di fare a sua volta un pezzetto di strada insieme all’immagine, di continuarla e concluderla”. È in questo che si differenzia dai fotografi puristi, prediligendo ai tecnicismi le storie e il lato umano. Per Doisneau i fotografi ufficiali erano dei barbari cacciatori che non sapevano leggere lo spettacolo gratuito e permanente della strada. “Mi piacciono le persone per le loro debolezze e difetti. Mi trovo bene con la gente comune: parliamo. Iniziamo a parlare del tempo e a poco a poco arriviamo alle cose importanti. Quando fotografo non è come se stessi ad esaminare con la lente di ingrandimento… E’ una cosa fraterna ed è bellissimo far luce su quelle persone che non sono mai sotto i riflettori”.

Mademoiselle Anita, 1951

R. Doisneau, "Mademoiselle Anita", 1950 - Via Museo dell'Ara Pacis - Si chiama aura quella specie di tubo al neon che si accende intorno a certe persone, isolandole per un breve momento. Bisogna sbrigarsi a registrarla, perché non regge il movimento. "La prego, ferma così, non si muova, poi le spiego". Doveva rendersi conto dell'effetto prodotto perché, senza neanche alzare gli occhi, mantenne quell'atteggiamento di ostinata modestia che tanto le donava. Sperava in un ballerino, e invece le è capitato un fotografo. E da quel giorno del 1951, Anita non si è più mossa]. Il 1° aprile 1994 i giornali francesi hanno annunciarono la morte del loro fotografo più amato con questa foto in prima pagina e il titolo "Anita è triste".

È l’umanità delle ‘banlieu’ da cui egli stesso proviene, dei lavoratori mattinieri, delle passeggiate domenicali lungo la Senna, della quotidianità casalinga, dei bar e dei bistrò, di portinaie chiromanti e ballerine dei locali notturni, di parrucchiere che si riposano al sole, macellai canterini, suonatori di fisarmonica, coppie di innamorati che si baciano incuranti del mondo che scorre veloce intorno a loro, o aggrappati a un treno in partenza... Nessuno come Doisneau è riuscito a raccontare Parigi, la sua gente, i suoi luoghi: la “francesità” in uno scatto (e in uno sguardo, mi verrebbe da dire…). Sì, perché se volete cogliere lo spirito che anima questo artista sarà sufficiente osservare gli occhi dei soggetti dei suoi ritratti.

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Alcuni scatti appartenenti alla serie “ Un regard oblique (1948)” in cui un ritratto di nudo di donna attira l’attenzione dei passanti. Allo scopo Doisneau aveva nascosto la sua macchina fotografica dietro una sedia antica alla galleria d’arte Romi nel 5° arrondissement. Con la sua solita vena umoristica l’aveva impostata con l’angolazione ideale per fotografare il dipinto e le reazioni dei parigini. (Via Pinterest)

Fotografo umanista

Con i goliardi amici di sempre Robert Giraud e Jacque Prevert (spesso essi stessi protagonisti di scatti divertentissimi) vive appieno, giorno e notte, il “teatro della strada”. È la cosiddetta “fotografia umanista” che mette l’uomo al centro dell’obbiettivo, ma nel caso di Doisneau è anche fotografia empatica, poetica e corale: lo “straordinario dell’umano” tanto caro a Victor Hugo. Le sue foto sono poetiche tanto quanto le didascalie che lui stesso redige, così che i suoi libri sono anche un piacere da leggere oltre che da guardare. Negli anni del dopoguerra quando gli si chiedeva perché, da simpatizzante comunista, non prendesse una posizione attiva nella politica sociale, lui rispondeva che non era suo interesse scattare foto che sudassero sangue: a lui interessava “rappresentare il suo popolo con un’emozione. Io aiuto la gente a modo mio: la mia militanza è la fotografia, perché l’occhio è di tutti, l’occhio è lo strumento dei poveri”.

Il suo approccio creativo è duplice. Nel primo agisce come farebbe un pescatore prendendo “all’amo” l’interessante che casualmente passa davanti al suo obbiettivo. Nel secondo allestisce una scena dove a fianco del protagonista si aggiungono via via altre comparse, un coro di occhi che donano una interpretazione sempre diversa e sempre ironica, fatta di una dolcezza semplice e ingenua. “Si va in un bel posto dove le cose formano una composizione armoniosa nello spazio. Si stabilisce un’inquadratura e si aspetta con una specie di speranza completamente folle, irrazionale che le persone entrino nel riquadro”. Sono foto solo apparentemente casuali dove le due modalità molto diverse tra loro si alternano e si fondono in modo fluido e perfetto e proprio nel fatto che l’osservatore non riesca a carpirne la differenza sta la grandezza di Doisneau. “Vedere, a volte, significa costruirsi, con i mezzi a disposizione, un teatrino e aspettare gli attori. Aspettare chi? Non lo so, però aspetto”.

Fox Terrier au Pont des Artes (1953): organizzata a tavolino in un bistrò con amici, lungo la Senna un pittore dipinge un nudo di una modella (però vestita e seduta su una panchina). Il fatto attira l’attenzione di numerosi passanti stupiti. Doisneau coglie l’attimo: un uomo perplesso tiene a guinzaglio un cane che è anche l’unico a guardare l’obbiettivo (l’unico che forse ha capito il gioco) - Via Museo dell'Ara Pacis

“Osservare, aspettare, catturare” ed eccolo qua, il “pescatore di immagini” (definizione dello stesso Doisneau): un richiamo alla sua infanzia e al suo Bambino Interiore che attraverso la sua arte ha sempre amorevolmente nutrito e mai tradito, che ci ha lasciato in eredità circa 450.000 negativi gelosamente custoditi dalle figlie presso la Fondazione Doisneau.

“Certi giorni basta il semplice fatto di esistere per essere felici. Ci si sente leggeri leggeri, ci si sente talmente ricchi che viene voglia di condividere con qualcuno una gioia troppo grande. Il ricordo di quei momenti è il mio bene più prezioso. Forse perché sono così rari. Un centesimo di secondo qui, un altro là, sommati insieme non saranno che due o tre secondi rubati all’eternità”.

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Robert Doisneau ritratto da Bracha L. Ettinger nel suo studio in Montrouge, 1992 - Via Wikimedia Commos

(Testo: Zebra a Pois - Foto di copertina: R. Doisneau, "Le baiser de l'Hotel De Ville", 1950 via Flickr)

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